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   Si deve dare atto che persino la comunità degli atleti paralimpici non è esente dalla messa in atto di pratiche illecite, una casistica che – per fortuna – interessa una minima parte degli altri, ma della quale è opportuno rendere conto.

Closeup of man hand with syringe and cycling bike, technological doping

   Si tratta, in sintesi, dell’approfittare della propria disabilità per ottenere privilegi illegittimi, accedendo a una categoria di disabilità – ottenuta sulla base di una classificazione stilata dal Comitato Internazionale Paralimpico (CIP) – che permetterebbe all’atleta in questione di gareggiare contro avversari con gradi di disabilità superiori, mettendosi quindi deliberatamente in una posizione di vantaggio.

    Essenziale per la comprensione del concetto è il riferimento alle classificazioni funzionali, che per l’appunto suddividono gli atleti in base al grado di disabilità, in modo da garantire lo svolgimento di una competizione equa e ad armi pari, tale per cui gli sportivi con caratteristiche simili vengono inseriti in gare contro avversari con analoghe potenzialità.

    È il Comitato Internazionale Paralimpico a stabilire le linee guida per questa tutt’altro che semplice classificazione, laddove invece spetta alle federazioni interazionali occuparsi nel dettaglio delle suddivisioni.

   Nella pratica, le classificazioni vengono precedute da un esame fisico, con il quale viene calcolato il deficit dell’atleta, cui segue una valutazione funzionale per testare i movimenti, la coordinazione e la vista.

   Infine, l’atleta viene sottoposto a una simulazione della prova, durante la quale gli/le viene data la possibilità di utilizzare eventuali protesi e nell’ambito del quale si valuta la prestazione, l’esecuzione del movimento e l’uso della tecnica.

   Quest’ultima analisi è ampiamente soggettiva e discrezionale, ed è lì che gli scorretti trovano terreno fertile, mettendo in pratica una serie di condotte – tipicamente, l’omissione di una o più abilità – per essere inseriti in una categoria inferiore, traendone evidente vantaggio.

   Il doping virtuale riguarda invece il mondo degli sport elettronici, o eSport, i cui confini sono stati da tempo varcati anche da tali pratiche illecite, che consistono nell’assunzione di sostanze che alterano la prestazione videoludica, o nella dotazione di attrezzature illegali per raggiungere risultati migliori (o indebolire gli avversari).

   Se la prima fattispecie aderisce, nella sostanza, alle pratiche di doping negli sport tradizionali (il giocatore assume delle sostanze che – ad esempio – migliorano i suoi riflessi), la seconda riguarda una sottocategoria di eSport, ovverosia gli sport virtuali, in cui un atleta, con l’ausilio di un macchinario, simula, gareggiando contro avversari da tutto il mondo, una competizione sportiva reale.

     Si pensi al cosiddetto ciclismo virtuale, in cui basta una cyclette da salotto e uno schermo per simulare una gara ciclistica, che può svolgersi all’interno delle mura di casa propria: in questo caso è tutt’altro che infrequente la pratica di collegare dei “bot” al software di gara per fare competere un programma al posto di un essere umano.

   A parte l’oggettiva difficoltà nello scoprire tale categoria di truffatori virtuali, sul piano sanzionatorio è interessante osservare che, non esistendo delle linee guida che accomunino tutte le categorie di eSport, né tantomeno una procedura di controlli ufficialmente riconosciuta, si tratta il più delle volte di condotte che vengono scoperte in modo casuale e, comunque, come detto, senza l’ausilio di un sistema certificato.

   Ad avviso di chi scrive, il doping virtuale rappresenta una sfida resa ancora più complessa dall’assenza di regole condivise in materia, nonché da quella di leggi sportive nazionali (vedi il caso dell’Italia), che diano compiuta disciplina al fenomeno, tanto sotto l’aspetto sostanziale, quanto da quello procedurale.

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Carlo Rombolà

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