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Il concetto di “doping” riguarda tanto l’universo (e l’etica) sportiva, quanto la salute pubblica.

Pertanto, è la stessa terminologia – che comprende anche il termine che indica la lotta al fenomeno: “antidoping” – ad assurgere agli onori delle cronache, anche giudiziarie.

L’art. 1 della Legge 14 dicembre 2000, n. 376, statuisce che “costituiscono doping la somministrazione o l’assunzione o la somministrazione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche e idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”.

Dal testo della norma si evince che il doping è essenzialmente una condotta, anche se il temine viene talora impropriamente utilizzato, in gergo giornalistico e/o colloquiale, anche per individuare le sostanze proibite dalla legge.

Per il diritto penale, il doping è un reato, punito sino a tre anni di reclusione (che possono aumentare se l’assunzione provoca danni effettivi per la salute), se la persona offesa è un minorenne o se a distribuire le sostanze vietate è un dipendente del CONI.

Il principio generale subisce dei correttivi qualora le condizioni patologiche dell’atleta siano documentate da un certificato medico e sia verificata l’assenza di pericoli per la salute dello sportivo, caso in cui viene consentito un trattamento ad hoc con le medesime sostanze vietate, nonché la possibilità di partecipare alla competizione sportiva.

Sul punto, si tenga presente che il Ministero della Salute pubblica e aggiorna periodicamente la lista dei farmaci e delle sostanze biologicamente e farmacologicamente attive e delle pratiche mediche il cui impiego è considerato doping ai sensi della succitata normativa.

Per ciò che concerne, invece, i metodi proibiti, le pratiche più frequenti sono il doping ematico e le manipolazioni chimiche e fisiche dei campioni di urina.

La necessità di combattere il doping nello sport, si diceva, tanto a livello nazionale che internazionale è universalmente riconosciuta; oggi, a differenza di un passato in cui la pratica dell’uso di sostanze dopanti costituiva l’atto isolato di un singolo atleta, il ricorso a sostanze vietate o a metodi proibiti risulta “organizzato”, anche (ma non solo) a causa della illimitata reperibilità dei farmaci attraverso i canali non ufficiali.

Per non parlare del preoccupante coinvolgimento del mondo giovanile, dilettantistico e amatoriale – anch’esso interessato, tanto dal punto di vista dell’ordinamento sportivo quanto da quello statale, dalla normativa antidoping – nell’utilizzo di sostanze e metodi proibiti, tale per cui si è resa necessaria una riflessione seria, anche e soprattutto a livello internazionale, sulla necessità di opporre misure concrete e risolutorie verso quella che viene definita come una vera e propria piaga dello sport.

Dal punto di vista giuridico, la stella polare in materia è data dal Codice Sportivo Antidoping, in vigore dal 1° febbraio 2023, ove, tra le altre cose, sono specificati i ruoli e le responsabilità fondamentali degli atleti e del loro personale di supporto, nonché esaminate, nel dettaglio, le pratiche violative della normativa sportivo antidoping.

Tutto ciò premesso, è importante precisare che l’ambito sportivo – pur nella sua sostanziale autonomia – è caratterizzato da un’eterogeneità di fonti, dal momento che nella sua sfera di interesse operano e sono attratte attività ulteriori e ad esso pertinenti, sino a toccare una serie di aspetti di competenza statale, da tempo non più “disinteressato” alla regolamentazione del milieu sportivo.

La normativa antidoping non fa eccezione, ed anzi appartiene alla cosiddetta competenza concorrente delle Regioni, pur limitata dalla riserva dello Stato delle norme generali in materia di sport, ex art. 117, comma 3, della Costituzione italiana.

In un simile quadro generale, proprio la consapevolezza di una mutevole e spesso convulsa produzione di norme, leggi e regolamenti a livello dei singoli Paesi, ha ispirato l’azione delle Istituzioni Europee e successivamente dell’Agenzia Mondiale Antidoping (WADA) nella ricerca di risposte adeguate alla complessità del fenomeno e sulla necessità di una strategia e un indirizzo comune.

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Carlo Rombolà

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